Era il 15 agosto del 2016 quando in molti siamo stati raggiunti da una telefonata, per avvisarci che don Fernando non era più con noi, ma a quelle parole non credemmo, e credo che in diversi sentimmo di aver perduto un punto fermo.
E’ ormai passato un anno, e dopo un anno cosa potremmo scrivere per ricordarlo? Come possiamo evitare di aggiungere parole inutili, di essere prevedibili, soprattutto di scrivere tanto senza dire nulla?
Forse un modo c’è, ed è quello di ricordarlo attraverso le sue parole, quelle che troviamo nel libro “Da prete a servizio dell’uomo”, libro da lui stesso scritto. Ci proveremo, sperando di trasmettere i suoi pensieri, le sue riflessioni, la sua passione per l’uomo, per i poveri, per Gesù.
Partiamo dal 1963 quando diventa rettore del Seminario per l’America Latina, ed inizia così a girare i paesi di quel grande continente, in uno dei suoi viaggi racconta: “… Nella sosta che per la prima volta feci in Argentina avevo notato dall’alto dell’aereo che si stava abbassando su Buenos Aires degli “specchi” che, qua e là, riflettevano la luce, e non mi rendevo conto di che cosa si potesse trattare. Chiesi spiegazione al mio vicino di viaggio e mi disse che erano le tante piscine delle ville signorili. Cominciavo a scontrarmi con una delle realtà stridenti di tutta l’America Latina: il contrasto fra una ricchezza, un tenore di vita, un ostentato benessere di città e ambienti modernissimi e, dall’altra parte, l’arretratezza, la miseria, la sporcizia delle periferie e dell’interno. Sembravano coesistere, a brevissima distanza, a volte anche intrecciate tra loro, una accanto all’altra, ere geologiche distanti secoli. E lo stridore di quei contrasti era insopportabile … Erano i primi traumi che mi ferivano come forme di un’ingiustizia insopportabile. Ed erano le prime “grazie” con cui il Signore preparava quella che per me – come dirò – fu una vera “conversione”, che mi portò a rileggere in un altro modo tutto il Vangelo e a schierarmi, da allora, dalla parte dei poveri difendendone i diritti …”
Nel libro ci sono diversi capitoli che don Fernando dedica alla sua esperienza del Seminario e dei viaggi in America Latina, esperienze che, lette oggi, presentano quello che forse era il disegno di Dio per lui. Scrive ancora don Fernando ricordando di un viaggio in Brasile, nel 1977 quando era già rientrato in diocesi di Treviso e assegnato ad una parrocchia: “Fu diagnosticata un’infezione … prescritto un farmaco e soggiorno a letto. Ritornai per alcuni giorni nella casetta in periferia; ricordo bene, nella finestra accanto al letto, la ripida pendenza per cui passava instancabile quella povera gente; e così mi accorsi che già alle quattro del mattino dovevano di fretta mettersi in fila per poter trovare posto negli autobus che li conducevano al lavoro. Una vita pulsante, infernale, serena. Ripeto, concludo: io devo a loro se finalmente ho riletto il Vangelo e ho scoperto la forza e la sofferenza dei poveri del mondo. Con il dovere di mettermi al loro fianco…”
Don Fernando rientra nel 1972 a Treviso dopo l’esperienza del Seminario per l’America Latina, ed incontra Luca, terzo figlio di suo fratello Gianni. “Luca era un bambino down, accolto da tutti loro con immenso amore e altrettanta sofferenza … quelli erano anni pesanti e intolleranti nei confronti delle persone disabili di qualsiasi genere. A volte, addirittura, a partire dalle stesse famiglie che provavano vergogna nei loro confronti…” E così i figli venivano nascosti o inseriti nei grandi istituti, a volte le famiglie vivevano il loro arrivo con senso di colpa, come se fossero stati una specie di maledizione. A tutto ciò, si aggiungeva l’esclusione scolastica. Dopo l’esperienza latino-americana don Fernando sente che il suo posto è al fianco di queste famiglie e dei loro figli, partecipando anche ad iniziative per smuovere le coscienze e la politica, come il blocco stradale in una delle principali arterie di Milano con le associazioni di categoria. Il suo costante impegno e la fede, l’aver unito le famiglie, tutto questo porta a dare una prima risposta, quella lavorativa, occupazionale e sociale: nel 1977 nasce l’AILS (Associazione Inserimento Lavorativo-Sociale). “Perché, nelle mie intenzioni, questa avrebbe dovuto essere la mission che l’AILS doveva avere: favorire in loro la progressiva presa di coscienza del proprio valore, crescendo in conseguenza nell’autostima …”.
“…Ma le storie, a volte, sembra non finiscano mai. Perché da sempre io mi portavo dietro, come un ronzio all’orecchio, l’interrogativo … da parte di tante mamme: “E dopo don Fernando? Quando noi non ci saremo più … Dove andranno a finire …?” Da questa domanda don Fernando non si lascia scoraggiare, e assieme alle famiglie affronta questo importante e delicato tema. Per prima cosa “… decidemmo di cancellare quella funerea denominazione del “dopo di noi” e battezzare la fondazione che intendevamo far sorgere: “Il nostro domani”. Io proposi ad un amico grafico il logo che, per quanto simbolicamente, esprimesse il nostro sogno e cioè: una casa, stretta ad altre case, senza porte, con una strada che usciva verso l’esterno. E, in alto, il sole; a dire la voglia di vivere. E nacque così il nostro logo…” Le case che la futura Fondazione avrebbe costruito per dare risposta a quella domanda che ronzava nelle orecchie di don Fernando dovevano avere una caratteristica fondante: “…ridare ad ogni residente un clima di casa: caratteristica dominante doveva essere una relazione personale e affettuosa (non fittizia) e una provocante,fiduciosa attesa di un comportamento responsabile e adulto…”
Nel novembre del 2003 fu inaugurata la prima Comunità Alloggio, “G. de Rossi” a Cavriè di San Biagio di Callalta. Seguirono, negli anni successivi, Casa “Maria Adelaide da Sacco” a Vidor, Casa “Spigariol-Minatel a Breda di Piave, Casa “Codato” a Preganziol ed infine Casa “dei Giacinti” a Volpago del Montello. Ma c’è un episodio che don Fernando ricorda nel suo libro con il quale esprime cosa intendesse per ridare un clima di casa: “Eravamo ospiti in un albergo con l’intera comunità di Cavriè per il pranzo di Pasqua. A tavola cominciai, con la coda dell’occhio, ad osservare con una certa insistenza soprattutto il comportamento di una giovanissima operatrice impegnata ad imboccare uno dei nostri residenti particolarmente grave … per più di due ore, un boccone dopo l’altro, lentamente, la delicata attenta pulizia di ogni incipiente sbavatura, quel sorriso dolce e invitante e quel parlottare sommesso per me incomprensibile … A me sembrava una mamma col suo piccolo. Non saprei davvero trovare un altro paragone …”
“Spesso mi affiora un vecchio rimorso: ho tanto lavorato per loro, ma io non ho saputo vivere con loro. Un rimorso che è anche una domanda che mi sono fatto tante volte, sapendo bene quanto importante, invece, sia soprattutto regalare e accettare vere relazioni; e quindi capacità, gusto di dare tempo, stare assieme, vivere con. Perché non l’ho fatto? E ho sempre trovato una sola risposta … che sento l’unica vera: io con loro non ci so fare … Mi sembra di dover chiedere loro scusa…”. Dopo i tanti progetti portati avanti riusciva ancora ad interrogarsi, a non giustificarsi dietro al suo aver fatto tanto. Un’anima inquieta e costantemente interrogante.
Concludiamo questo viaggio tra i pensieri di don Fernando con questa sua riflessione: “Sentirsi dire, dopo qualche tempo, da una mamma, da un papà, da un fratello: “E’ diventato un altro… quasi non lo riconosco più …” è la soddisfazione più grande. Per loro, per i familiari, ma anche per noi. Per gli operatori soprattutto. Perché il tutto è il frutto di quella capacità prolungata nelle ore, nei giorni, nel tempo di relazionarsi con loro in un certo modo … trattandoli personalmente e sempre da adulti; prendendoli sul serio, esigendo da loro, come si esige da un bambino che si ama e di cui si ha fiducia … che finalmente raggiungano quell’autonomia che è nelle loro possibilità. Perché è proprio vero: se trovano certi ambienti di vita, come detto, affiorano progressivamente risorse inaspettate.”
16 febbraio 1919 – 15 agosto 2016